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Giovanni Carmassi - Dal silenzio la musica
Introduzione al libro. Pisa: Ets, 2014

È tutto cominciato così: uno dei miei due figli studia pianoforte al Conservatorio col maestro Giovanni Carmassi. Giorno dopo giorno, lo sento mentre studia. Incomincia a suonare un pezzo. Abbastanza presto raggiunge un livello soddisfacente: le note sono giuste, i tempi anche. A me, che amo la musica senza essere un musicista, sembra il punto di arrivo. Invece è solo l'inizio. Dopo qualche giorno lo sento suonare lo stesso pezzo. Ma la musica ha acquisito un nuovo carattere: mi pare più bella, mi pare che esprima un'anima prima nascosta. Passa un po' di tempo, e sento di nuovo lo stesso pezzo: anche questa volta ha un nuovo smalto, una maggiore profondità. Ora ci siamo, penso, questo è proprio un bel risultato. E invece dopo un po' ecco un' interpretazione ancora più scintillante. A volte affiora un volto segreto e sorprendente. E così la storia va avanti, e quel pezzo che prima già mi pareva di conoscere, continua invece a rivelare aspetti sempre nuovi. Insomma, la lezione del maestro raggiunge anche me: la musica è un abisso pieno di misteri e meraviglie. Si può navigare in superficie. O ci si può tuffare dentro. Dopo alcuni ripetuti ascolti, sono andato a sentire un saggio di classe. A dire la verità ho sempre avuto qualche prevenzione verso i saggi collettivi di musica o di teatro per giovani allievi. Alcuni presentano indubbiamente esecuzioni di un certo pregio, ma altri sono pieni di sbagli, stonature, dimenticanze, disastri. I ragazzi sono nervosi e impacciati. I genitori – noblesse oblige – sono costretti a riempirli di lodi. Ma qui era una cosa ben diversa. Ci trovavamo davanti a esecuzioni di grande bellezza. Allora ho voluto capire meglio che cosa succedeva. Così sono andato a sentire le lezioni di pianoforte durante il corso estivo che il maestro Carmassi tiene ogni estate a Lizzano in Belvedere.

Le lezioni sono spettacolari. Gli allievi, bravi e intuitivi, rispondono prontamente ai suggerimenti del Carmassi. Come un maestro Zen, li porta là dove può avvenire lo stato di grazia: quando la musica si suona da sé, senza sforzi o ripensamenti. Ma guai a basarsi sulla speranza di uno stato di grazia! Bisogna lavorare sodo. Spesso i brani scelti non sono tanto conosciuti. Questo aiuta a salvarsi dai cliché: un'infamia da rifuggire a tutti i costi.

Il maestro spesso usa metafore. Potrei fare innumerevoli esempi, ne citerò qualcuno. Parlando dell'ultimo tempo della sonata n. 2 di Chopin dice a un allievo: "Devi pensare a questo pezzo, che viene subito dopo la famosa marcia funebre, come a un'entrata nel nulla. Dopo la morte c'è il vuoto, le note che si susseguono veloci sono come foglie secche portate via dal vento." Insegnando a un altro allievo come perfezionare una parte finale in Papillons di Schumann, suggerisce: "Il clima qui è come l'atmosfera sconsolata di quando è finita la festa di carnevale, tutti se ne sono andati, è l'alba, un po' come nel famoso episodio de I Vitelloni di Fellini". O lavorando su uno studio di Scriabin: "Devi immaginare dei carboni incandescenti: ardono, ma la fiamma divamperà solo in seguito. La tensione per ora è nascosta". E così via, metafora dopo metafora. I ragazzi ascoltano, poi suonano di nuovo. Le note sono sempre le stesse, i tempi anche. È tutto uguale a prima o quasi: ma è completamente diverso. Il pezzo è trasfigurato.

Questo vuol dire che gli allievi devono tenere presente la metafora loro assegnata e usarla come un preciso riferimento? Neanche per sogno! Subito dopo aver dato il suo suggerimento, il maestro aggiunge: "Adesso dimentica tutto, fa come se non avessi detto nulla!" Intanto la metafora scende nell'inconscio, e lì continua il suo prezioso lavoro. Il bello è che l'allievo è lasciato libero di creare la propria interpretazione. Gli stessi suggerimenti offerti ad allievi diversi portano a interpretazioni diverse. In quelle lezioni non vedi all'opera solo l'arte del piano. Vedi anche l'arte di insegnare.

A un certo punto ho proposto al maestro di fare una serie di interviste in cui fissare i punti più importanti del suo insegnamento. Il risultato è questo libro. Nel lavorare con lui mi sono accorto che non ha solo l'istinto del buon musicista e pedagogo. Nel suo lavoro c'è un sistema messo a punto attraverso anni di lavoro e riflessioni. I principi sono ben chiari, e talvolta contrari ai metodi imperanti e anche magari a ciò che a prima vista parrebbe più logico. I temi sono ricorrenti: il pezzo musicale deve essere costruito interiormente, mai improvvisato; in ogni nota deve vivere la presenza totale di chi la suona; bando alla meccanicità, allo sfoggio del virtuosismo, alle imitazioni; in un pezzo musicale ogni muscolo, ogni respiro, ogni pensiero, ognuna delle varie memorie (ce n'è più d'una), e soprattutto l'anima, tutto contribuisce a creare il suono che sta nascendo.

Un po' per scherzo, un po' sul serio (non sono mai riuscito a capire in che proporzione), il maestro dice spesso che la musica è una brutta malattia, e che si sente in colpa di contagiare i suoi allievi, perché poi non si guarisce più. Credo di capire che cosa voglia dire: li conduce per mano in un mondo incantato. Molto distante dalle mille banalità della vita quotidiana. Da qui poi è impossibile uscire, tanto è forte la sua magia.

L'incantesimo della musica si spiega anche così: nell'era della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, Carmassi predilige il "qui ed ora" del concerto. Come Walter Benjamin, è convinto che è la presenza vivente della musica, la sua irripetibilità, che dà significato e valore a un pezzo musicale. Anche se può essere utile e istruttivo ascoltarla, la registrazione è una pallida copia. È la differenza che passa fra una persona vivente e la sua fotografia. "Non sprecare le note!" dice il maestro. Vuol dire che ogni nota conta, guai a farla sovrappensiero, o come un riempitivo. Ogni nota conta: è un bellissimo concetto, perchè ci mostra che in ciascuna più piccola parte di un pezzo musicale è contenuto un tesoro.

Pensando a questo tema mi viene in mente una storia mediorientale: tre giovani fratelli decidono di andare per il mondo e riportare a casa un oggetto eccezionale. Il primo dopo molte peripezie riporta uno specchio magico, con cui è possibile vedere ovunque. Il secondo porta un tappeto volante, grazie al quale si può andare in ogni dove. Il terzo, un frutto il cui succo, una volta spremuto, ha la proprietà straordinaria di guarire qualsiasi malattia. A un certo punto i tre si accorgono, grazie allo specchio magico, che una principessa sta morendo. Con il tappeto arrivano da lei in pochi attimi. Il frutto magico la guarisce. È chiaro che uno dei tre avrà il privilegio di sposarla. Dopotutto, ogni fratello ha dato un contributo essenziale. Chi sarà il prescelto? La risposta è il terzo fratello, quello che ha offerto il frutto, perché mentre specchio e tappeto potevano essere usati di nuovo indefinitamente, il terzo veniva usato una ed una sola volta, e poi mai più; il giovane che ne aveva fatto uso sapeva che in quell'atto volto a salvare la principessa avrebbe perso per sempre quella magia, avrebbe speso una volta per tutte il suo tesoro: solo quella era una vera prova d'amore. Così è per la spontaneità e l'irripetibilità della bellezza. E' proprio nella singolarità di questa esecuzione, nell'atmosfera di questo momento, che dopo sarà passato per sempre e che nessuno potrà mai più far rivivere, che si rivela la bellezza. Qui si consuma il dramma e la meraviglia della condizione umana. Nel concerto si assiste alla vita di un pezzo musicale. Lì c'è la sua autenticità proprio perché ogni prestazione musicale è unica e irripetibile. Se ascoltiamo (o eseguiamo) la musica in questo modo ci parrà tutt'altra cosa: come il succo di quel frutto magico.

Viviamo in una strana epoca. C'è un calo di presenze ai concerti di musica classica (i dati però sono contraddittori). Alcuni ne prevedono il tramonto. Intanto però, tanto per fare un esempio, abbiamo a disposizione 87 versioni diverse delle sinfonie di Beethoven. Al tempo stesso innumerevoli studi scientifici mostrano che lo studio della musica aumenta l'intelligenza e la massa cerebrale, migliora il rendimento accademico (compresa la matematica e la letteratura); è più efficace dello studio informatico per sviluppare il ragionamento astratto; aiuta a sviluppare l'autodisciplina, e rende meno probabile l'abuso di sostanze; migliora la coordinazione fisica; riduce l'ansia; evoca qualità utilissime nel lavoro e nella vita come flessibilità, capacità di comunicare, di risolvere i problemi, creatività.

Questi sono dati strabilianti e dovrebbero incoraggiare tutti. Speriamo che qualcuno li prenda in considerazione nell'organizzare un curriculum accademico. Però non possono essere la motivazione primaria per lo studio musicale approfondito: solo un interessante effetto collaterale. Non si deve suonare il pianoforte per avere un cervello più efficiente o una migliore riuscita accademica. La motivazione, mi pare, dovrebbe essere la musica stessa. Da studiare con umiltà, attenzione e tenacia.

E soprattutto onestà. Dapprima con se stessi, nel lavoro di costruzione del pezzo musicale. Poi davanti al pubblico. Perchè non bisogna dimenticare un aspetto essenziale: in questo mestiere non si può fingere neanche per un momento, insegna il Carmassi. Tu suoni ciò che sei: questo è il mestiere più trasparente del mondo. Il pianista che esegue un pezzo in pubblico è vulnerabile, perchè esce allo scoperto, e perchè in ogni momento potrebbe sbagliare. Si trova in una situazione simile a quella di un trapezista che esegue il suo numero: un momento di disattenzione ed è la catastrofe. Questa è una vita pericolosa. Questa è la musica vivente.